Alla salute nostra

ferriera-servola“Tutto si annientava in fondo all’ignoto delle notti buie; il giovane riusciva solo a scorgere, in lontananza, gli altiforni e i forni a coke. Questi ultimi, batterie di cento ciminiere disposte obliquamente, formavano delle file di fiamme rosse, mentre le due torri più a sinistra, simili a torce gigantesche, ardevano intensamente azzurre, alte nel cielo. Era triste come un incendio: gli unici astri che sorgevano all’orizzonte minaccioso erano i fuochi notturni delle terre del carbone e del ferro”.
Chi credeva che simili narrazioni fossero ormai sorpassate dai tempi, rendendo di fatto Germinale di Zola un testo fortemente vincolato al contesto storico-sociale che intendeva descrivere – il nord della Francia della prima rivoluzione industriale – dovrà ricredersi. D’altra parte, l’impianto siderurgico di cui si parlerà di seguito ha pressappoco l’età del romanzo dello scrittore francese: se Germinal venne pubblicato nel 1885, la Ferriera di Trieste ha iniziato la produzione di ghisa nel 1896, sotto il fu impero asburgico.
A più di un secolo di distanza l’“Ilva del nord”, ancora in attività, non gode di ottima salute: nel corso degli ultimi anni l’impianto siderurgico è divenuto tristemente noto alle cronache nazionali per le alte concentrazioni di inquinanti registrate nell’abitato circostante (spesso superiori a quelle del quartiere Tamburi di Taranto), e negli ultimi mesi la drammatica situazione ha portato a due grandi manifestazioni di piazza che hanno chiesto il rispetto per la salute degli abitanti.
I numeri, nel corso degli ultimi anni, parlano chiaro: polveri sottili e benzo(a)pirene hanno sistematicamente superato le soglie stabilite dalle normative in materia, senza che le istituzioni siano riuscite ad arginare un problema sempre più sentito dalla cittadinanza. Nel 2015 si sono registrati 142 sforamenti per le pm10, a fronte dei 35 tollerati, mentre per il canceroso benzo(a)pirene la media annuale registrata è stata del 25% superiore a quella consentita. Quali sono gli effetti di un simile inquinamento? Sebbene sul fronte sanitario non vi siano studi epidemiologici che mostrino l’incidenza tumorale di chi vive a Servola, è possibile avere qualche dato – anche se non recentissimo – appoggiandosi a una ricerca nazionale: lo studio S.E.N.T.I.E.R.I., finanziato dal Ministero della Salute, ha analizzato la mortalità della popolazione residente nei pressi dei Siti di Interesse Nazionale (tra cui rientra la città di Trieste) dal 1995 al 2002. In questi anni, a parità di popolazione, le morti connesse all’inquinamento siderurgico a Trieste (1959) sono state il doppio rispetto a quelle di Taranto (1072). A parlare è poi una perizia commissionata dalla Procura che – in un’analisi che ha considerato le cartelle cliniche degli operai (ed ex operai) dello stabilimento – ha evidenziato come chi lavori nella Ferriera abbia una maggiore incidenza dei tumori le cui cause sono legate all’inquinamento industriale: il 39% di possibilità in più di avere un tumore ai polmoni e il 26% in più di avere quello alla vescica.
Dinanzi a una simile situazione, le istituzioni hanno riposto tutte le loro speranze nel “cavaliere dell’acciaio” Giovanni Arvedi, il quale ha formalizzato l’acquisto dello stabilimento nel 2014, dopo che la precedente proprietà (gruppo Lucchini) aveva dichiarato bancarotta. Un passaggio di proprietà che sta impegnando l’industriale – così stabiliscono gli accordi di programma – alla riqualificazione e messa in sicurezza degli impianti. Non si pensi, però, che l’impegno economico graverà solo sulle tasche del gruppo Arvedi: l’investimento è stato infatti coperto in gran parte dal finanziamento pubblico. A fronte dei 15 milioni di euro messi sul piatto dal gruppo Arvedi, sono 42 i milioni con i quali i cittadini hanno dovuto pagare le incurie della precedente gestione dello stabilimento, disastrosa sotto ogni punto di vista.
Con il passaggio di proprietà si è evitata da una parte la chiusura dello stabilimento, dall’altra il licenziamento degli operai che vi lavorano. Al momento i dipendenti sono 485, di cui 250 impiegati nell’area a caldo, la parte della fabbrica maggiormente impattante dal punto di vista delle emissioni. Proprio l’area a caldo è finita recentemente nel mirino del “Comitato 5 dicembre” che, assieme a diversi gruppi ambientalisti locali, ha portato nel giro di pochi mesi in piazza oltre 4000 persone chiedendone la chiusura. Il peso politico del Comitato è cresciuto nel corso della primavera, anche a causa delle incombenti elezioni amministrative che hanno riguardato il capoluogo giuliano: il tema della Ferriera ha così monopolizzato una campagna elettorale per il resto povera di contenuti, portando all’elezione del candidato di centrodestra Roberto Dipiazza e alla sconfitta del sindaco uscente Roberto Cosolini (Pd), il quale aveva scommesso politicamente moltissimo sulla riqualificazione dello stabilimento siderurgico. Proprio grazie alle promesse sulla chiusura dell’area a caldo – e all’appoggio dato prima del ballottaggio dal Comitato – Dipiazza è riuscito a farsi eleggere, nonostante nei suoi due precedenti mandati ogni promessa su questo tema non sia stata mantenuta.
C’è da aggiungere che, stando al Comitato, nel caso si chiudesse l’area a caldo i 250 operai lì impiegati non verrebbero lasciati per strada: nei progetti che il gruppo Arvedi ha dell’area vi è anche l’attività di un laminatoio a freddo (meno impattante), che secondo le stime dell’azienda potrà impiegare più di 300 operai. Questo dovrebbe togliere terreno allo scontro tra operai (i primi, come abbiamo visto, a pagare con la propria salute) e cittadini, ma così non è avvenuto: il “cavaliere dell’acciaio”, in lizza per acquisire anche l’Ilva di Taranto, non vuole assolutamente rinunciare all’area a caldo, sulla quale ha sperimentato una cappa “aspira-polveri” che vorrebbe utilizzare anche nel più grande stabilimento tarantino; per questo motivo Arvedi ha dichiarato di star già formando i nuovi operai per il laminatoio, mandando in fumo la possibilità di un trasferimento di quelli già impiegati nell’area a caldo.
A onor del vero bisogna ammettere che la cappa aspira-polveri, nel corso degli ultimi mesi, pare stia avendo qualche effetto: la media di benzo(a)pirene è di poco al di sotto di quella consentita dalla normativa in materia, mentre gli sforamenti di polveri sottili sono stati – dall’inizio dell’anno – 31, a fronte dei 35 tollerati. Certo, la probabilità che si raggiunga la soglia dei 35 è altissima, e le frequenti piogge nel corso dei primi mesi dell’anno, alternate alla forte Bora, hanno dato il loro contributo all’abbattimento delle concentrazioni di polveri nell’aria, ma è pur vero che – rispetto al 2015 – il miglioramento c’è stato, anche se non sufficiente. Questo perché il principale problema dello stabilimento non è tanto il suo buon funzionamento, ma l’eccessiva vicinanza alle abitazioni. A sottolinearlo è il prof. di Chimica dell’Ambiente (nonché perito per la Procura sulla Ferriera) Pierluigi Barbieri, il quale in una recente intervista ha dichiarato che anche utilizzando le BAT (“best available technology”), con buona pace della cappa aspira-polveri, la vicinanza dell’impianto alle abitazioni è tale da rendere ogni sforzo inutile: le prime case distano infatti solo 160 metri dalla cokeria, principale fonte di emissioni.
In ogni caso, anche nella remota ipotesi che alla fine del 2016 si rientrasse nei limiti di legge, ciò potrebbe non essere sufficiente per la tutela della salute. Nel corso degli ultimi anni l’Azienda Sanitaria ha lanciato più volte l’allarme, osservando come – anche nel caso in cui le sostanze emesse rientrassero nei limiti di legge – si avrebbe comunque una situazione potenzialmente pericolosa, dal momento che «la presenza di un’esposizione a più inquinanti rappresenta un fattore cumulativo di rischio portando ad un’aggressione all’organismo da parte di più sostanze che possono contribuire sinergicamente a determinare danni per la salute con effetti a lungo termine».
Stefano Tieri

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